ARTICOLI SUI SANTI CRISTIANI

sabato 23 maggio 2009

SANTA RITA DA CASCIA





Santa Rita da Cascia Vedova e religiosa

22 maggio









Fra le tante stranezze o fatti strepitosi che accompagnano la vita dei santi, prima e dopo la morte, ce n'è uno in particolare che riguarda s. Rita da Cascia, una delle sante più venerate in Italia e nel mondo cattolico, ed è che essa è stata beatificata ben 180 anni dopo la sua morte e addirittura proclamata santa a 453 anni dalla morte.
Quindi una santa che ha avuto un cammino ufficiale per la sua canonizzazione molto lento (si pensi che sant’Antonio di Padova fu proclamato santo un anno dopo la morte), ma nonostante ciò s. Rita è stata ed è una delle più venerate ed invocate figure della santità cattolica, per i prodigi operati e per la sua umanissima vicenda terrena.
Rita ha il titolo di “santa dei casi impossibili”, cioè di quei casi clinici o di vita, per cui non ci sono più speranze e che con la sua intercessione, tante volte miracolosamente si sono risolti.
Nacque intorno al 1381 a Roccaporena, un villaggio montano a 710 metri s. m. nel Comune di Cascia, in provincia di Perugia; i suoi genitori Antonio Lottius e Amata Ferri erano già in età matura quando si sposarono e solo dopo dodici anni di vane attese, nacque Rita, accolta come un dono della Provvidenza.
La vita di Rita fu intessuta di fatti prodigiosi, che la tradizione, più che le poche notizie certe che possediamo, ci hanno tramandato; ma come in tutte le leggende c’è alla base senz’altro un fondo di verità.
Si racconta quindi che la madre molto devota, ebbe la visione di un angelo che le annunciava la tardiva gravidanza, che avrebbero ricevuto una figlia e che avrebbero dovuto chiamarla Rita; in ciò c’è una similitudine con s. Giovanni Battista, anch’egli nato da genitori anziani e con il nome suggerito da una visione.
Poiché a Roccaporena mancava una chiesa con fonte battesimale, la piccola Rita venne battezzata nella chiesa di S. Maria della Plebe a Cascia e alla sua infanzia è legato un fatto prodigioso; dopo qualche mese, i genitori, presero a portare la neonata con loro durante il lavoro nei campi, riponendola in un cestello di vimini poco distante.
E un giorno mentre la piccola riposava all’ombra di un albero, mentre i genitori stavano un po’ più lontani, uno sciame di api le circondò la testa senza pungerla, anzi alcune di esse entrarono nella boccuccia aperta depositandovi del miele. Nel frattempo un contadino che si era ferito con la falce ad una mano, lasciò il lavoro per correre a Cascia per farsi medicare; passando davanti al cestello e visto la scena, prese a cacciare via le api e qui avvenne la seconda fase del prodigio, man mano che scuoteva le braccia per farle andare via, la ferita si rimarginò completamente. L’uomo gridò al miracolo e con lui tutti gli abitanti di Roccaporena, che seppero del prodigio.
Rita crebbe nell’ubbidienza ai genitori, i quali a loro volta inculcarono nella figlia tanto attesa, i più vivi sentimenti religiosi; visse un’infanzia e un’adolescenza nel tranquillo borgo di Roccaporena, dove la sua famiglia aveva una posizione comunque benestante e con un certo prestigio legale, perché a quanto sembra ai membri della casata Lottius, veniva attribuita la carica di ‘pacieri’ nelle controversie civili e penali del borgo.
Già dai primi anni dell’adolescenza Rita manifestò apertamente la sua vocazione ad una vita religiosa, infatti ogni volta che le era possibile, si ritirava nel piccolo oratorio, fatto costruire in casa con il consenso dei genitori, oppure correva al monastero di Santa Maria Maddalena nella vicina Cascia, dove forse era suora una sua parente.
Frequentava anche la chiesa di S. Agostino, scegliendo come suoi protettori i santi che lì si veneravano, oltre s. Agostino, s. Giovanni Battista e Nicola da Tolentino, canonizzato poi nel 1446. Aveva tredici anni quando i genitori, forse obbligati a farlo, la promisero in matrimonio a Fernando Mancini, un giovane del borgo, conosciuto per il suo carattere forte, impetuoso, perfino secondo alcuni studiosi, brutale e violento.
Rita non ne fu entusiasta, perché altre erano le sue aspirazioni, ma in quell’epoca il matrimonio non era tanto stabilito dalla scelta dei fidanzati, quando dagli interessi delle famiglie, pertanto ella dovette cedere alle insistenze dei genitori e andò sposa a quel giovane ufficiale che comandava la guarnigione di Collegiacone, del quale “fu vittima e moglie”, come fu poi detto.
Da lui sopportò con pazienza ogni maltrattamento, senza mai lamentarsi, chiedendogli con ubbidienza perfino il permesso di andare in chiesa. Con la nascita di due gemelli e la sua perseveranza di rispondere con la dolcezza alla violenza, riuscì a trasformare con il tempo il carattere del marito e renderlo più docile; fu un cambiamento che fece gioire tutta Roccaporena, che per anni ne aveva dovuto subire le angherie.
I figli Giangiacomo Antonio e Paolo Maria, crebbero educati da Rita Lottius secondo i principi che le erano stati inculcati dai suoi genitori, ma essi purtroppo assimilarono anche gli ideali e regole della comunità casciana, che fra l’altro riteneva legittima la vendetta.
E venne dopo qualche anno, in un periodo non precisato, che a Rita morirono i due anziani genitori e poi il marito fu ucciso in un’imboscata una sera mentre tornava a casa da Cascia; fu opera senz’altro di qualcuno che non gli aveva perdonato le precedenti violenze subite.
Ai figli ormai quindicenni, cercò di nascondere la morte violenta del padre, ma da quel drammatico giorno, visse con il timore della perdita anche dei figli, perché aveva saputo che gli uccisori del marito, erano decisi ad eliminare gli appartenenti al cognome Mancini; nello stesso tempo i suoi cognati erano decisi a vendicare l’uccisione di Fernando Mancini e quindi anche i figli sarebbero stati coinvolti nella faida di vendette che ne sarebbe seguita.
Narra la leggenda che Rita per sottrarli a questa sorte, abbia pregato Cristo di non permettere che le anime dei suoi figli si perdessero, ma piuttosto di toglierli dal mondo, “Io te li dono. Fà di loro secondo la tua volontà”. Comunque un anno dopo i due fratelli si ammalarono e morirono, fra il dolore cocente della madre.
A questo punto inserisco una riflessione personale, sono del Sud Italia e in alcune regioni, esistono realtà di malavita organizzata, ma in alcuni paesi anche faide familiari, proprio come al tempo di s. Rita, che periodicamente lasciano sul terreno morti di ambo le parti. Solo che oggi abbiamo sempre più spesso donne che nell’attività malavitosa, si sostituiscono agli uomini uccisi, imprigionati o fuggitivi; oppure ad istigare altri familiari o componenti delle bande a vendicarsi, quindi abbiamo donne di mafia, di camorra, di ‘ndrangheta, di faide familiari, ecc.
Al contrario di s. Rita che pur di spezzare l’incipiente faida creatasi, chiese a Dio di riprendersi i figli, purché non si macchiassero a loro volta della vendetta e dell’omicidio.
S. Rita è un modello di donna adatto per i tempi duri. I suoi furono giorni di un secolo tragico per le lotte fratricide, le pestilenze, le carestie, con gli eserciti di ventura che invadevano di continuo l’Italia e anche se nella bella Valnerina questi eserciti non passarono, nondimeno la fame era presente.
Poi la violenza delle faide locali aggredì l’esistenza di Rita Lottius, distruggendo quello che si era costruito; ma lei non si abbatté, non passò il resto dei suoi giorni a piangere, ma ebbe il coraggio di lottare, per fermare la vendetta e scegliere la pace. Venne circondata subito di una buona fama, la gente di Roccaporena la cercava come popolare giudice di pace, in quel covo di vipere che erano i Comuni medioevali. Esempio fulgido di un ruolo determinante ed attivo della donna, nel campo sociale, della pace, della giustizia.
Ormai libera da vincoli familiari, si rivolse alle Suore Agostiniane del monastero di S. Maria Maddalena di Cascia per essere accolta fra loro; ma fu respinta per tre volte, nonostante le sue suppliche. I motivi non sono chiari, ma sembra che le Suore temessero di essere coinvolte nella faida tra famiglie del luogo e solo dopo una riappacificazione, avvenuta pubblicamente fra i fratelli del marito ed i suoi uccisori, essa venne accettata nel monastero.
Per la tradizione, l’ingresso avvenne per un fatto miracoloso, si narra che una notte, Rita come al solito, si era recata a pregare sullo “Scoglio” (specie di sperone di montagna che s’innalza per un centinaio di metri al disopra del villaggio di Roccaporena), qui ebbe la visione dei suoi tre santi protettori già citati, che la trasportarono a Cascia, introducendola nel monastero, si cita l’anno 1407; quando le suore la videro in orazione nel loro coro, nonostante tutte le porte chiuse, convinte dal prodigio e dal suo sorriso, l’accolsero fra loro.
Quando avvenne ciò Rita era intorno ai trent’anni e benché fosse illetterata, fu ammessa fra le monache coriste, cioè quelle suore che sapendo leggere potevano recitare l’Ufficio divino, ma evidentemente per Rita fu fatta un’eccezione, sostituendo l’ufficio divino con altre orazioni.
La nuova suora s’inserì nella comunità conducendo una vita di esemplare santità, praticando carità e pietà e tante penitenze, che in breve suscitò l’ammirazione delle consorelle. Devotissima alla Passione di Cristo, desiderò di condividerne i dolori e questo costituì il tema principale delle sue meditazioni e preghiere.
Gesù l’esaudì e un giorno nel 1432, mentre era in contemplazione davanti al Crocifisso, sentì una spina della corona del Cristo conficcarsi nella fronte, producendole una profonda piaga, che poi divenne purulenta e putrescente, costringendola ad una continua segregazione.
La ferita scomparve soltanto in occasione di un suo pellegrinaggio a Roma, fatto per perorare la causa di canonizzazione di s. Nicola da Tolentino, sospesa dal secolo precedente; ciò le permise di circolare fra la gente.
Si era talmente immedesimata nella Croce, che visse nella sofferenza gli ultimi quindici anni, logorata dalle fatiche, dalle sofferenze, ma anche dai digiuni e dall’uso dei flagelli, che erano tanti e di varie specie; negli ultimi quattro anni si cibava così poco, che forse la Comunione eucaristica era il suo unico sostentamento e fu costretta a restare coricata sul suo giaciglio.
E in questa fase finale della sua vita, avvenne un altro prodigio, essendo immobile a letto, ricevé la visita di una parente, che nel congedarsi le chiese se desiderava qualcosa della sua casa di Roccaporena e Rita rispose che le sarebbe piaciuto avere una rosa dall’orto, ma la parente obiettò che si era in pieno inverno e quindi ciò non era possibile, ma Rita insisté.
Tornata a Roccaporena la parente si recò nell’orticello e in mezzo ad un rosaio, vide una bella rosa sbocciata, stupita la colse e la portò da Rita a Cascia, la quale ringraziando la consegnò alle meravigliate consorelle.
Così la santa vedova, madre, suora, divenne la santa della ‘Spina’ e la santa della ‘Rosa’; nel giorno della sua festa questi fiori vengono benedetti e distribuiti ai fedeli.
Il 22 maggio 1447 Rita si spense, mentre le campane da sole suonavano a festa, annunciando la sua ‘nascita’ al cielo. Si narra che il giorno dei funerali, quando ormai si era sparsa la voce dei miracoli attorno al suo corpo, comparvero delle api nere, che si annidarono nelle mura del convento e ancora oggi sono lì, sono api che non hanno un alveare, non fanno miele e da cinque secoli si riproducono fra quelle mura.
Per singolare privilegio il suo corpo non fu mai sepolto, in qualche modo trattato secondo le tecniche di allora, fu deposto in una cassa di cipresso, poi andata persa in un successivo incendio, mentre il corpo miracolosamente ne uscì indenne e riposto in un artistico sarcofago ligneo, opera di Cesco Barbari, un falegname di Cascia, devoto risanato per intercessione della santa.
Sul sarcofago sono vari dipinti di Antonio da Norcia (1457), sul coperchio è dipinta la santa in abito agostiniano, stesa nel sonno della morte su un drappo stellato; il sarcofago è oggi conservato nella nuova basilica costruita nel 1937-1947; anche il corpo riposa incorrotto in un’urna trasparente, esposto alla venerazione degli innumerevoli fedeli, nella cappella della santa nella Basilica-Santuario di S. Rita a Cascia.
Accanto al cuscino è dipinta una lunga iscrizione metrica che accenna alla vita della “Gemma dell’Umbria”, al suo amore per la Croce e agli altri episodi della sua vita di monaca santa; l’epitaffio è in antico umbro ed è di grande interesse quindi per conoscere il profilo spirituale di S. Rita.
Bisogna dire che il corpo rimasto prodigiosamente incorrotto e a differenza di quello di altri santi, non si è incartapecorito, appare come una persona morta da poco e non presenta sulla fronte la famosa piaga della spina, che si rimarginò inspiegabilmente dopo la morte.
Tutto ciò è documentato dalle relazioni mediche effettuate durante il processo per la beatificazione, avvenuta nel 1627 con papa Urbano VIII; il culto proseguì ininterrotto per la santa chiamata “la Rosa di Roccaporena”; il 24 maggio 1900 papa Leone XIII la canonizzò solennemente.
Al suo nome vennero intitolate tante iniziative assistenziali, monasteri, chiese in tutto il mondo; è sorta anche una pia unione denominata “Opera di S. Rita” preposta al culto della santa, alla sua conoscenza, ai continui pellegrinaggi e fra le tante sue realizzazioni effettuate, la cappella della sua casa, la cappella del “Sacro Scoglio” dove pregava, il santuario di Roccaporena, l’Orfanotrofio, la Casa del Pellegrino.
Il cuore del culto comunque resta il Santuario ed il monastero di Cascia, che con Assisi, Norcia, Cortona, costituiscono le culle della grande santità umbra.


Autore: Antonio Borrelli



http://www.santiebeati.it/dettaglio/32950

martedì 12 maggio 2009

Dalla «Lettera a Diogneto» (Capp. 5-6; Funk, pp. 397-401)-I CRISTIANI NEL MONDO

I CRISTIANI NEL MONDO





Dalla «Lettera a Diogneto» (Capp. 5-6; Funk, pp. 397-401)

I cristiani non si differenziano dal resto degli uomini né per territorio, né per lingua, né per consuetudini di vita. Infatti non abitano città particolari, né usano di un qualche strano linguaggio, né conducono uno speciale genere di vita. La loro dottrina non è stata inventata per riflessione e indagine di uomini amanti delle novità, né essi si appoggiano, come taluni, sopra un sistema filosofico umano.
Abitano in città sia greche che barbare, come capita, e pur seguendo nel vestito, nel vitto e nel resto della vita le usanze del luogo, si propongono una forma di vita meravigliosa e, per ammissione di tutti, incredibile. Abitano ciascuno la loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutte le attività di buoni cittadini e accettano tutti gli oneri come ospiti di passaggio. Ogni terra straniera è patria per loro, mentre ogni partita è per essi terra straniera. Come tutti gli altri si sposano e hanno figli, ma non espongono i loro bambini. Hanno in comune la mensa, ma non il talamo.
Vivono nella carne, ma non secondo la carne. Trascorrono la loro vita sulla terra, ma la loro cittadinanza è quella del cielo. Obbediscono alle leggi stabilite, ma, con il loro modo di vivere, sono superiori alle leggi.
Amano tutti e da tutti sono perseguitati. Sono sconosciuti eppure condannati. Sono mandati a morte, ma con questo ricevono la vita. Sono poveri, ma arricchiscono molti. Mancano di ogni cosa, ma trovano tutto in sovrabbondanza. Sono disprezzati, ma nel disprezzo trovano la loro gloria. Sono colpiti nella fama e intanto si rende testimonianza alla loro giustizia.
Sono ingiuriati e benedicono, sono trattati ignominiosamente e ricambiano con l'onore. Pur facendo il bene, sono puniti come malfattori; e quando sono puniti si rallegrano, quasi si desse loro la vita. I giudei fanno loro guerra, come a gente straniera, e i pagani li perseguitano. Ma quanti li odiano non sanno dire il motivo della loro inimicizia.
In una parola i cristiani sono nel mondo quello che è l'anima nel corpo. L'anima si trova in tutte le membra del corpo e anche i cristiani sono sparsi nelle città del mondo. L'anima abita nel corpo, ma non proviene dal corpo. Anche i cristiani abitano in questo mondo, ma non sono del mondo. L'anima invisibile è racchiusa in un corpo visibile, anche i cristiani si vedono abitare nel mondo, ma il loro vero culto a Dio rimane invisibile.
La carne, pur non avendo ricevuto ingiustizia alcuna, si accanisce con odio e muove guerra all'anima, perché questa le impedisce di godere dei piaceri sensuali; così anche il mondo odia i cristiani pur non avendo ricevuto ingiuria alcuna, solo perché questi si oppongono al male.
Sebbene ne sia odiata, l'anima ama la carne e le sue membra, così anche i cristiani amano coloro che li odiano. L'anima è rinchiusa nel corpo, ma essa a sua volta sorregge il corpo. Anche i cristiani sono trattenuti nel mondo come in una prigione, ma sono essi che sorreggono il mondo. L'anima immortale abita in una tenda mortale, così anche i cristiani sono come dei pellegrini in viaggio tra cose corruttibili, ma aspettano l'incorruttibilità celeste.
L'anima, maltrattata nei cibi e nelle bevande, diventa migliore. Così anche i cristiani, esposti ai supplizi, crescono di numero ogni giorno. Dio li ha messi in un posto così nobile, che non è loro lecito abbandonare.





http://groups.google.com/group/centro-religione-cristiana?hl=it

venerdì 1 maggio 2009

1 MAGGIO SN GIUSEPPE LAVORATORE


San Giuseppe lavoratore

1° Maggio



Il 1° maggio, prima di diventare in Europa la «Festa del Lavoro», fu per lungo tempo, alla fine del XIX secolo e all’inizio del XX, una giornata di rivendicazioni e spesso di lotte per la promozione della classe lavoratrice.

A questo richiamo non poteva rimanere insensibile la Chiesa, che i papi Leone XIII e Pio IX col loro magistero via via aprivano ai problemi del mondo del lavoro.



Pio XII istituì questa memoria liturgica, per dare una dimensione cristiana a questo giorno, mettendola sotto il patrocinio di san Giuseppe lavoratore (1955). « Ogni lavoro - aveva detto già nel radiomessaggio natalizio del 1942 - possiede una dignità inalienabile, e in pari tempo un intimo legame col perfezionamento della persona: nobile dignità e prerogativa, cui in verun modo non avviliscono la fatica e il peso che sono da sopportarsi come effetto del peccato originale, in obbedienza e commissione alla volontà di Dio». Cristo stesso ha voluto essere lavoratore manuale, trascorrendo gran parte della vita nella bottega di Giuseppe, il santo dalle mani callose, il carpentiere di Nazaret.

Per sottolineare la nobiltà del lavoro la Chiesa propone alla nostra meditazione S. Giuseppe artigiano. La festa odierna sostituisce quella del Patrocinio di S. Giuseppe sulla Chiesa universale, prescritta nel 1847 da Pio IX.

Pio XII e il Beato Giovanni XXIII resero omaggio a questo esemplare maestro di vita cristiana, all'uomo laborioso, onesto, fedele alla parola di Dio, obbediente, virtù che il Vangelo sintetizza con due parole: « uomo giusto ». « I proletari e gli operai - scriveva Leone XIII, il papa della “Rerum novarum” - hanno come diritto speciale a ricorrere a S. Giuseppe e a proporsi la sua imitazione. Giuseppe infatti, di stirpe regale, unito in matrimonio con la più grande e la più santa delle donne, considerato come il padre del Figlio di Dio, passa ciò nonostante la sua vita a lavorare e chiede al suo lavoro di artigiano tutto ciò che è necessario al mantenimento della famiglia».



Dalla Costituzione pastorale Gaudium et Spes 4, 34 del Concilio ecumenico Vaticano II sulla Chiesa nel mondo contemporaneo.



Per i credenti una cosa è certa: considerata in se stessa, l'attività umana individuale e collettiva, ossia quell'ingente sforzo col quale gli uomini nel corso dei secoli cercano di migliorare le proprie condizioni di vita, corrisponde alle intenzioni di Dio.

L'uomo infatti, creato ad immagine di Dio, ha ricevuto il comando di sottomettere a sé la terra con tutto quanto essa contiene, e di governare il mondo nella giustizia e nella santità, e così pure di riferire a Dio il proprio essere e l'universo intero, riconoscendo in lui il Creatore di tutte le cose; in modo che, nella subordinazione di tutta la realtà all'uomo, sia glorificato il nome di Dio su tutta la terra. Ciò vale anche per gli ordinari lavori quotidiani.

Gli uomini e le donne, infatti, che per procurarsi il sostentamento per sé e per la famiglia esercitano il proprio lavoro in modo tale da prestare anche conveniente servizio alla società, possono a buon diritto ritenere che con il loro lavoro essi prolungano l'opera del Creatore, si rendono utili ai propri fratelli e donano un contributo personale alla realizzazione del piano provvidenziale di Dio nella storia. I cristiani, dunque, non si sognano nemmeno di contrapporre i prodotti dell'ingegno e del coraggio dell'uomo alla potenza di Dio, quasi che la creatura razionale sia rivale del Creatore; al contrario, sono persuasi piuttosto che le vittorie dell'umanità sono segno della grandezza di Dio e frutto del suo ineffabile disegno. Ma quanto più cresce la potenza degli uomini, tanto più si estende e si allarga la loro responsabilità, sia individuale che collettiva.

Da ciò si vede come il messaggio cristiano, lungi dal distogliere gli uomini dal compito di edificare il mondo o dall'incitarli a disinteressarsi del bene dei propri simili, li impegna piuttosto a tutto ciò con un obbligo ancora più pressante.



Fonte: vaticano; intratext.com (“RIV.”).





Fonte: vaticano; intratext.com («RIV.»).







©Evangelizo.org 2001-2009
http://www.evangeliumtagfuertag.org/main.php?language=IT&module=saintfeast&localdate=20090501&id=3&fd=0

venerdì 17 aprile 2009

San Policarpo Vescovo e martire




San Policarpo Vescovo e martire


E’ stato istruito nella fede da "molti che avevano visto il Signore", e "fu dagli Apostoli stessi posto vescovo per l’Asia nella Chiesa di Smirne". Così scrive di lui Ireneo, suo discepolo e vescovo di Lione in Gallia. Policarpo, nato da una famiglia benestante di Smirne, viene messo a capo dei cristiani del luogo verso l’anno 100. Nel 107 è testimone di un evento straordinario: il passaggio per Smirne di Ignazio, vescovo di Antiochia, che va sotto scorta a Roma dove subirà il martirio, decretato in una persecuzione locale. Policarpo lo ospita durante la sosta, e più tardi Ignazio gli scrive una lettera che tutte le generazioni cristiane conosceranno, lodandolo come buon pastore e combattente per la causa di Cristo.
Nel 154 Policarpo dall’Asia Minore va a Roma in tutta tranquillità, per discutere con papa Aniceto (di origine probabilmente siriana) sulla data della Pasqua. E da Lione un altro figlio dell’Asia Minore, Ireneo, li esorta a non rompere la pace fra i cristiani su questo problema. Roma celebra la Pasqua sempre di domenica, e gli orientali sempre il 14 del mese ebraico di Nisan, in qualunque giorno della settimana cada. Aniceto e Policarpo non riescono a mettersi d’accordo, ma trattano e si separano in amicizia.
Periodi di piena tranquillità per i cristiani sono a volte interrotti da persecuzioni anticristiane, per lo più di carattere locale. Come quella che appunto scoppia a Smirne, dopo il ritorno di Policarpo da Roma, regnando l’imperatore Antonino Pio. Undici cristiani sono già stati uccisi nello stadio quando un gruppo di facinorosi vi porta anche il vecchio vescovo (ha 86 anni), perché il governatore romano Quadrato lo condanni. Quadrato vuole invece risparmiarlo e gli chiede di dichiararsi non cristiano, fingendo di non conoscerlo. Ma Policarpo gli risponde tranquillo: "Tu fingi di ignorare chi io sia. Ebbene, ascolta francamente: io sono cristiano". Rifiuta poi di difendersi di fronte alla folla, e si arrampica da solo sulla catasta pronta per il rogo. Non vuole che lo leghino. Verrà poi ucciso con la spada. E’ il 23 febbraio 155, verso le due del pomeriggio. Lo sappiamo dal Martyrium Polycarpi, scritto da un testimone oculare in quello stesso anno. E’ la prima opera cristiana dedicata unicamente al racconto del supplizio di un martire. E anzi è la prima a chiamare “martire” (testimone) chi muore per la fede.
Tra le lettere di Policarpo alle comunità cristiane vicine alla sua, si conserverà quella indirizzata ai Filippesi, in cui il vescovo ricorda la Passione di Cristo: "Egli sofferse per noi, affinché noi vivessimo in Lui. Dobbiamo quindi imitare la sua pazienza... Egli ci ha lasciato un modello nella sua persona". Policarpo quella pazienza l’ha imitata. Ed ha accolto e realizzato pure l’esortazione di Ignazio, che nella sua lettera prima del martirio gli scriveva: "Sta’ saldo come incudine sotto i colpi".


Autore: Domenico Agasso



http://www.santiebeati.it/dettaglio/22900

SAN POLICARPO DI SMIRNE





SAN POLICARPO DI SMIRNE
http://www.enrosadira.it/santi/p/policarpo.htm


Policarpo, santo, martire, le reliquie sono nel cippo marmoreo posto sotto l’altare maggiore di S. Ambrogio della Massima. Altre venivano indicate a Roma nella chiesa di S. Maria in Campo Marzio.
M.R.: 26 gennaio - San Policarpo, Vescovo di Smirne e Martire, che conseguì la corona del martirio il ventitre di Febbraio.
23 febbraio - A Smirne il natale di san Policarpo, discepolo del beato Giovanni Apostolo e da lui stesso ordinato Vescovo di quella città: fu il personaggio più illustre di tutta l’Asia. Sotto Marco Antonino e Lucio Aurelio Commodo, in presenza del Proconsole mentre tutto il popolo nell’anfiteatro a gran voce gridava contro di lui, fu dato al fuoco, e non restando punto offeso dalle fiamme, trafitto dalla spada, ricevette la corona del martirio. Con lui furono pure martirizzati nella stessa città di Smirne altri dodici, che erano venuti da Filadelfia. La festa di San Policarpo si celebra il ventisei Gennaio.
http://www.monasterovirtuale.it/policarpo.html
Martirio di S. Policarpo
Saluto

La Chiesa di Dio che dimora a Smirne alla Chiesa di Dio che è a Filomelio e a tutte le comunità della santa Chiesa cattolica di ogni luogo. La misericordia, la pace e la carità di Dio Padre e del Signore nostro Gesù Cristo abbondino.

L’argomento della lettera

I. 1. Vi scriviamo, fratelli, riguardo ai martiri e al beato Policarpo che sigillandola col suo martirio ha fatto cessare la persecuzione. Quasi tutti gli avvenimenti svolti accaddero perché il Signore ci mostrasse di nuovo un martirio secondo il Vangelo. 2. Infatti, come il Signore, egli attese di essere arrestato, perché anche noi divenissimo suoi imitatori, non preoccupandoci solo di noi, ma anche del prossimo. E’ della carità sincera e salda volere non solo salvare se stesso ma anche tutti i fratelli.

Contemplare con gli occhi del cuore

II, 1. Beati e generosi sono tutti i martìri che avvengono per volontà del Signore. Bisogna che noi siamo più religiosi per attribuire a Dio la potenza di tutte le cose. 2. Chi non si meraviglierebbe della loro generosità, della loro pazienza e del loro amore a Dio? Lacerati dai flagelli, al punto da lasciar vedere l’anatomia del corpo sino alle vene e alle arterie, rimanevano fermi, sebbene gli astanti, mossi a compassione, piangessero. Essi ebbero tale forza che nessuno emise un gemito o un sospiro dimostrando a tutti che, nel momento in cui venivano messi alla prova, i generosi martiri di Cristo non erano nel loro corpo, ma che il Signore stando vicino parlasse loro. 3. Presi dalla grazia di Cristo, disprezzavano i tormenti del mondo, acquistandosi, per un momento solo, la vita eterna. Il fuoco dei tormenti disumani era freddo per loro. Avevano davanti agli occhi, per sfuggirlo, quello eterno e che non si spegne mai. Con gli occhi del cuore contemplavano i beni riservati ai pazienti, che nè orecchio intese, nè occhio vide, nè cuore di uomo ha immaginato, additati loro dal Signore, perché non erano più uomini, ma angeli. 4. Similmente quelli che furono condannati alle fiere sopportarono tormenti orribili, stesi su conchiglie e straziati con altre forme di torture varie, perché si cercava, se fosse stato possibile, di indurli all’abiura.

Germanico

III, 1. Molto macchinò contro di loro il diavolo, ma grazie a Dio non prevalse in tutto. Il generosissimo Germanico con la sua costanza sostenne la loro debolezza e fu mirabile nella lotta contro le fiere. Il proconsole lo esortava dicendo di aver pietà della sua giovinezza, ma egli, aizzandola, attirava contro di sè la belva, desideroso di allontanarsi al più presto da questa vita ingiusta ed iniqua. 2. Per ciò tutta la folla meravigliata della elevatezza d'animo della razza pia e generosa dei cristiani ebbe a gridare: “Abbasso gli atei! Si cerchi Policarpo”.

Quinto

IV. Un frigio di nome Quinto, da poco venuto dalla Frigia, vedendo le fiere fu terrorizzato. Egli si era offerto spontaneamente e spingeva gli altri allo stesso passo. Il proconsole, dopo molte insistenze, lo persuase a giurare e a sacrificare. Perciò, fratelli, non approviamo coloro che si costituiscono, poiché il Vangelo non insegna così.

II rifugio

V, 1. Policarpo, uomo assai meraviglioso, a sentire ciò, non si scompose e volle rimanere in città, ma i più lo esortavano ad allontanarsi. Si ritirò in campagna, poco lontano dalla città e si trattenne con pochi. Non faceva altro giorno e notte che pregare per tutti e per le comunità cristiane del mondo, come era suo costume. 2. Mentre stava in preghiera, tre giorni prima di essere catturato, ebbe la visione del suo guanciale arso dalle fiamme. Rivoltosi a quelli che erano con lui disse: “Devo essere bruciato vivo”.

Il tradimento

VI, 1. Poiché quelli che lo cercavano non si fermavano, egli si trasferì in un’altra campagna e subito vi giunsero coloro che lo inseguivano. Non avendolo trovato, presero due giovani schiavi. Uno di essi torturato confessò. 2. (Ormai) gli era impossibile rimanere nascosto, perché anche i suoi lo tradivano. Il capo della polizia, che aveva avuto dalla sorte lo stesso nome di Erode, aveva premura di condurlo allo stadio, perché si fosse compiuto il suo destino divenendo simile a Cristo, e i traditori avessero ricevuto lo stesso castigo di Giuda.

La cattura

VII, 1. Di venerdì all'ora di pranzo, guardie e cavalieri con le consuete armi, conducendosi il giovane schiavo, partirono come se inseguissero un ladrone. Arrivando verso sera lo trovarono coricato in una casetta al piano superiore. Anche di là avrebbe potuto fuggire in un altro podere, ma non volle dicendo: “Sia fatta la volontà di Dio”. 2. Sentendo che erano arrivati, scese a parlare con loro, meravigliati della sua veneranda età, della sua calma e di tanta preoccupazione per catturare un uomo così vecchio. Subito ordinò di dar loro da mangiare e da bere quanto ne volevano e chiese che gli concedessero un’ora per pregare tranquillamente. 3. Lo concessero, e stando in piedi incominciò a pregare pieno di amore di Dio, tanto che per due ore non si poté interromperlo. Quelli che lo ascoltavano erano stupiti e molti si pentivano di essere venuti a prendere un sì degno e santo vegliardo.

Grande sabato

VIII, 1. Quando terminò la preghiera, ricordandosi di tutti quelli che aveva conosciuto, piccoli e grandi, illustri e oscuri e di tutta la Chiesa cattolica sparsa per la terra, e giunse l'ora di andare, facendolo sedere su un asino lo condussero in città. Era il giorno del grande sabato. 2. Il capo della polizia e il padre di costui, Niceta, gli vennero incontro. Lo fecero salire sul cocchio e sedendogli vicino cercavano di persuaderlo dicendo: “Che male c’è a dire: Cesare Signore, offrire incenso con tutto ciò che segue e salvarsi?”. Dapprima non rispose loro, poiché quelli insistevano disse: “Non voglio fare quello che mi consigliate”. 3. Essi, avendo perduto la speranza di persuaderlo, gli rivolsero parole crudeli e lo spinsero in fretta, tanto che nello scendere dal cocchio si sbucciò lo stinco. Ma lui senza voltarsi, come se nulla fosse successo, allegro si incamminò verso lo stadio. Vi era un tumulto tale che nessuno poteva farsi ascoltare.

Abbasso gli atei!

IX, 1. A Policarpo che entrava nello stadio scese una voce dal cielo: “Sii forte, Policarpo, e mostrati valoroso”. Nessuno vide chi aveva parlato, quelli dei nostri che erano presenti udirono la voce. Infine, mentre veniva tradotto, si elevò un grande clamore per la notizia che Policarpo era stato arrestato. 2. Portato davanti al proconsole, questi gli chiese se fosse Policarpo. Egli annuì e (il proconsole) cercò di persuaderlo a rinnegare dicendo: “Pensa alla tua età” e le altre cose di conseguenza come si usa: “Giura per la fortuna di Cesare, cambia pensiero e di’: Abbasso gli atei!”. Policarpo, invece, con volto severo guardò per lo stadio tutta la folla dei crudeli pagani, tese verso di essa la mano, sospirò e guardando il cielo disse: “Abbasso gli atei!”. 3. Il capo della polizia insistendo disse: “Giura e io ti libero. Maledici il Cristo”. Policarpo rispose: “Da ottantasei anni lo servo, e non mi ha fatto alcun male. Come potrei bestemmiare il mio re che mi ha salvato?”.

Sono cristiano

X, 1. Insistendo ancora gli disse: “Giura per la fortuna di Cesare!”. Policarpo rispose: “Se ti illudi che io giuri per la fortuna di Cesare, come tu dici, e simuli di non sapere chi io sono, sentilo chiaramente. Io sono cristiano. Se poi desideri conoscere la dottrina del cristianesimo, concedimi una giornata e ascoltami”. Rispose il proconsole: “Convinci il popolo”. 2. Policarpo di rimando: “Te solo ritengo adatto ad ascoltarmi. Ci è stato insegnato di dare alle autorità e ai magistrati stabiliti da Dio il rispetto come si conviene, ma senza che ci danneggi. Non ritengo gli altri capaci di ascoltare la mia difesa”.

Il fuoco del giudizio futuro

XI, 1. Il proconsole disse: “Ho le belve e ad esse ti getterò se non cambi parere…”. L’altro rispose: “Chiamale, è impossibile per noi il cambiamento dal meglio al peggio; è bene invece passare dal male alla giustizia”. 2. Di nuovo l’altro gli disse: “Ti farò consumare dal fuoco, poiché disprezzi le belve, se non cambi parere…!”. Policarpo rispose: “Tu minacci il fuoco che brucia per un'ora e dopo poco si spegne e ignori invece il fuoco del giudizio futuro e della pena eterna, riservato agli empi. Ma perché indugi? Fa' quello che vuoi!”.



Policarpo ha confessato di essere cristiano

XII, 1. Nel dire queste ed altre cose era pieno di coraggio e di allegrezza e il suo volto splendeva di gioia. Egli non solo non si lasciò abbattere dalle minacce rivoltegli, ma lo stesso proconsole ne rimase sconcertato e mandò in mezzo allo stadio il suo araldo a gridare tre volte: “Policarpo ha confessato di essere cristiano”. 2. Dopo questo proclama dell’araldo, tutta la moltitudine dei pagani e dei giudei abitanti a Smirne con furore incontenibile e a gran voce gridò: “Questo è il maestro d’Asia, il padre dei cristiani, il distruttore dei nostri dei che insegna a molti a non fare sacrifici e a non adorare”. Gridavano queste cose chiedendo all’asiarca Filippo che lanciasse un leone contro Policarpo. Egli, invece, rispose che non gli era lecito, poiché il combattimento contro le fiere era terminato. 3. Allora concordemente si misero a gridare che Policarpo fosse arso vivo. Doveva compiersi la visione del guanciale, che gli era apparso quando in preghiera l'aveva visto in fiamme, e volto ai fedeli che erano con lui profeticamente disse: “Devo essere bruciato vivo”.

Fermo sulla pira

XIII, 1. Questo fu più presto fatto che detto; subito la folla si mise a raccogliere legna e frasche dalle officine e dalle terme. Soprattutto i giudei con più zelo, come è loro costume, si diedero da fare in questo. 2. Quando il rogo fu pronto, deposte le vesti e sciolta la cintura incominciò a slegarsi i calzari, cosa che precedentemente non faceva, perché ogni fedele si affrettava a chi prima riuscisse a toccargli il corpo. Per la santità di vita era venerato prima del martirio. 3. Subito furono apprestati gli attrezzi necessari per il rogo. Mentre stavano per inchiodarlo egli disse: “Lasciatemi così. Chi mi da la forza di sopportare il fuoco mi concederà anche, senza la vostra difesa dei chiodi, di rimanere fermo sulla pira”.

La preghiera di Policarpo

XIV, 1. Non lo inchiodarono ma lo legarono. Con le mani dietro la schiena e legato come un capro scelto da un grande gregge per il sacrificio, gradita offerta preparata a Dio, guardando verso il cielo disse: “Signore, Dio onnipotente Padre di Gesù Cristo tuo amato e benedetto Figlio, per il cui mezzo abbiamo ricevuto la tua scienza, o Dio degli angeli e delle potenze di ogni creazione e di ogni genia dei giusti che vivono alla tua presenza. 2. Io ti benedico perché mi hai reso degno di questo giorno e di questa ora di prendere parte nel numero dei martiri al calice del tuo Cristo per la risurrezione alla vita eterna dell’anima e del corpo nella incorruttibilità dello Spirito Santo. In mezzo a loro possa io essere accolto al tuo cospetto in sacrificio pingue e gradito come prima l’avevi preparato, manifestato e realizzato, Dio senza menzogna e veritiero. 3. Per questo e per tutte le altre cose ti lodo, ti benedico e ti glorifico per mezzo dell'eterno e celeste gran sacerdote Gesù Cristo tuo amato Figlio, per il quale sia gloria a te con lui e lo Spirito Santo ora e nei secoli futuri. Amen”.

Un profumo come di incenso

XV, 1. Appena ebbe alzato il suo Amen e terminato la preghiera, gli uomini della pira appiccarono il fuoco. La fiamma divampò grande. Vedemmo un prodigio e a noi fu concesso di vederlo. Siamo sopravvissuti per narrare agli altri questi avvenimenti. 2. Il fuoco, facendo una specie di voluta, come vela di nave gonfiata dal vento, girò intorno al corpo del martire. Egli stava in mezzo, non come carne che brucia ma come pane che cuoce, o come oro e argento che brilla nella fornace. E noi ricevemmo un profumo come di incenso che si alzava, o di altri aromi preziosi.

Un maestro profetico

XVI, 1. Alla fine gli empi, vedendo che il corpo di lui non veniva consumato dal fuoco, ordinarono al confector di avvicinarsi e di finirlo con un pugnale. E fatto questo, zampillò molto sangue che spense il fuoco. Tutta la folla rimase meravigliata della grande differenza tra gli infedeli e gli eletti. 2. Tra questi fu il meraviglioso martire Policarpo, vescovo della Chiesa cattolica di Smirne, divenuto ai nostri giorni un maestro apostolico e profetico. Ogni parola che uscì dalla sua bocca si è compiuta e si compirà.

II martire discepolo e imitatore del Signore

XVII, 1. Ma l'invidioso, maligno e perverso, il tentatore della razza dei giusti vide la grandezza del suo martirio e la sua condotta irreprensibile sin dal principio, notandolo cinto della corona dell’immortalità, il premio conseguito che non si può contestare. Egli si adoperò perché il corpo di lui non fosse preso da noi, benché molti desiderassero di farlo, per possedere la sua santa carne. 2. Suggerì a Niceta, il padre di Erode, fratello di Alce, di andare dal governatore perché non consegnasse le spoglie. Lasciando da parte il crocifisso - egli disse - incominceranno a venerare lui. Avevano detto questo per le istigazioni e le insistenze dei giudei, che ci sorvegliavano se noi volessimo prenderlo dal rogo. Erano ignari che non potremo mai abbandonare Cristo che ha sofferto da innocente per i peccatori, per la salvezza di quelli che sono salvi in tutto il mondo, e adorare un altro. 3. Noi veneriamo lui che è Figlio di Dio, e degnamente onoriamo i martiri come discepoli e imitatori del Signore per l’amore immenso al loro re e maestro. Potessimo anche noi divenire loro compagni e condiscepoli!…

II giorno natalizio

XVIII, 1. Il centurione, avendo visto la contesa dei giudei, poste nel mezzo le spoglie le fece bruciare, come era d’uso. 2. Così noi più tardi, raccogliendo le sue ossa, più preziose delle gemme di gran costo e più stimate dell’oro, le ponemmo in un luogo più conveniente. 3. Appena possibile, ivi riunendoci nella serenità e nella gioia, il Signore ci concederà di celebrare il giorno natalizio del martire, per il ricordo di quelli che hanno combattuto prima e ad esercizio e coraggio di quelli che combatteranno.

Martirio secondo il vangelo di Cristo

XIX, 1. Questi i fatti intorno al beato Policarpo che con quelli di Filadelfia fu il dodicesimo a subire il martirio a Smirne. Egli solo è ricordato più di tutti e di lui si parla dovunque, anche tra i pagani. Non soltanto fu un maestro insigne, ma un martire celebre, e tutti desiderano imitare il suo martirio avvenuto secondo il vangelo di Cristo. 2. Con la sua pazienza ha trionfato sul governatore ingiusto, ha conseguito la corona dell’immortalità ed esulta con gli apostoli e tutti i giusti. Egli glorifica Dio Padre onnipotente e benedice il Signore nostro Gesù Cristo, salvatore delle nostre anime, guida dei nostri corpi e pastore della Chiesa cattolica nel mondo.

Darne notizia ai fratelli

XX, 1. Ci avete pregato di essere informati da noi ampiamente sui fatti accaduti. Per il momento li abbiamo riassunti in breve per mezzo di nostro fratello Marcione. Conosciute poi le cose, spedite la lettera ai fratelli più lontani, perché anche questi glorifichino il Signore che fa la scelta dei suoi servi. 2. A lui, che può condurre tutti noi, per sua grazia e suo dono nel regno eterno, mediante suo Figlio, l’unigenito Gesù Cristo, gloria, onore, potenza e grandezza per sempre. Salutate tutti i fedeli. Quelli che sono con noi vi salutano e con tutta la famiglia Evaristo che ha stilato la lettera.

Data del martirio

XXI. Il beato Policarpo ha testimoniato il secondo giorno di Santico, il settimo giorno prima delle calende di marzo, di grande sabato, all’ora ottava. Fu preso da Erode, pontefice Filippo di Tralli e proconsole Stazio Quadrato, re eterno nostro Signore Gesù Cristo. A lui gloria, onore, grandezza, trono eterno di generazione in generazione. Amen.

I Appendice

XXII, 1. Noi vi auguriamo di star bene, fratelli, camminando secondo il Vangelo nella parola di Gesù Cristo, e con lui sia gloria a Dio Padre e allo Spirito Santo, per la salvezza dei santi eletti. Così testimoniò il beato Policarpo, sulle cui orme vorremmo trovarci nel regno di Gesù Cristo. 2. Ciò ha trascritto da Ireneo, discepolo di Policarpo, Gaio che era vissuto con Ireneo. Io, Socrate, ho scritto copiando da Gaio a Corinto. La grazia sia con tutti. 3. E io, Pionio, lo trascrivo ancora dall'esemplare già ricordato, avendolo cercato dopo una rivelazione del beato Policarpo, come dirò in seguito. Lo raccolsi che era quasi distrutto dal tempo, perché il Signore Gesù Cristo raccolga anche me tra i suoi eletti nel suo regno celeste. A lui sia gloria col Padre e col Santo Spirito nei secoli dei secoli. Amen.

Dal manoscritto di Mosca.

II Appendice

1. Ciò ha trascritto dalle opere di Ireneo Gaio, che era vissuto con Ireneo discepolo di Policarpo. 2. Questo Ireneo che all’epoca del martirio del vescovo Policarpo era a Roma, insegnò a molti. Di lui ci sono tramandate numerose opere molto belle ed ortodosse, nelle quali si ricorda di Policarpo che fu suo maestro, ed ebbe a confutare con forza ogni eresia e ci ha trasmesso la regola ecclesiastica e cattolica come l’aveva ricevuta dal santo. 3. Dice anche questo: un giorno Marcione, dal quale sono chiamati i Marcioniti, incontratosi con Policarpo gli disse: “Riconoscici, o Policarpo”. Egli rispose a Marcione: “Ti riconosco, ti riconosco quale primogenito di Satana”. 4. Anche questo si tramanda negli scritti di Ireneo. Nel giorno e nell’ora in cui Policarpo a Smirne subì il martirio, Ireneo, che era nella città di Roma, sentì una voce come di tromba che diceva: “Policarpo è stato martirizzato”. 5. Da queste opere di Ireneo, come si è detto, Gaio aveva trascritto, e da Gaio trascrisse Isocrate a Corinto. Io, Pionio, di nuovo ho trascritto da Isocrate, che ho ricercato dopo la rivelazione di san Policarpo. Lo raccolsi che era fatiscente per il tempo, perché mi raccolga il Signore Gesù Cristo con i suoi eletti nel suo regno celeste. A lui gloria col Padre e lo Spirito Santo nei secoli dei secoli. Amen.



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SAN GIUSTINO MARTIRE




SAN GIUSTINO MARTIRE

di Marcelo Gallardo



Il R. P. Marcelo Gallardo è licenziato in Filosofia nella Pontificia Università San Tommaso d'Aquino di Roma. Dal 1994 è professore di Filosofia nel Seminario del Patriarcato Latino di Gerusalemme e nello "Studium Theologicum Ierosolimitanum".



Introduzione e accenni biografici

San Giustino, "filosofo e martire". Così chiama Tertulliano (1) al nostro santo, uno dei primi padri apologisti ed il primo "filosofo cristiano". In questo lavoro intendiamo presentare certi aspetti rilevanti della vita e delle opere di questo santo riportando specialmente alcuni testi dei suoi scritti. Giustino, nato in Terra Santa e morto martire a Roma (2), è di uno dei più grandi santi della Chiesa dei primi secoli. Convertito al cristianesimo in un’epoca in cui i cristiani erano pochi e crudelmente perseguitati, affrontò con coraggio le grandi sfide della Chiesa del suo tempo: il dialogo con gli ebrei, il ruolo dei pagani e della loro cultura nella storia della salvezza, mantenendo ferma la sua fede fino a testimoniarla con il sangue.




Giustino nacque a Flavia Neapoli, città fondata da Vespasiano nel 72 d.C. poco dopo la conquista di Gerusalemme da parte dei romani. La città esiste ancora nella Samaria, col nome di Nablus e si trova fra due montagne bibliche: l’Ebal e il Garizzim. Molto vicina alla biblica Sichem, dove Dio era apparso ad Abramo, e dove lui Gli dedicò un altare (cfr. Gn 12, 6-7). Giosuè a Sichem convocò le dodici tribù d’Israele per ratificare la Alleanza fra Dio e il suo popolo (cfr. Gs 24). Lì vicino si conserva il pozzo di Giacobbe, dove il nostro Signore annunziò alla Samaritana che era arrivata l’ora in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in Spirito e verità (cfr. Jn 4,23).

Per il suo nome e quello di suo padre e del suo nonno si può dedurre l’origine pagana e presumibilmente romana di Giustino i cui genitori sono probabilmente venuti dalla penisola italica per stabilirsi nella nuova colonia romana dopo la sconfitta degli ebrei e la distruzione di Gerusalemme e del Tempio nel 70 d.C. La personalità di Giustino è molto attraente, si tratta di un vero uomo in cui non c’è falsità (cfr. Jn 1,47). Riportiamo le parole di uno dei suoi biografi:

"Quello che ci ispira pronta simpatia in San Giustino, io direi di buon grado che è la trasparenza della sua anima, sincera, leale, ardente come nessuna. Quella anima si mostra a noi dalle prime righe della prima Apologia, nella stessa dedicazione; ci sono poche parole cosi impressionanti in tutta la letteratura cristiana primitiva: io, uno di loro (3).

"Io, Giustino, di Prisco, figlio di Bacheio nativi di Flavia Napoli, città della Siria di Palestina, o composto questo discorso e questa supplica in difesa degli uomini di ogni stirpe ingiustamente odiati e perseguitati, io che sono uno di loro" (4).



Fra le sue opere conserviamo due apologie indirizzate molto probabilmente agli imperatori Antonino Pio e Marco Antonio, ed il Dialogo con Trifone nel quale presenta il cristianesimo in Dialogo con la filosofia e col Giudaismo. Le due apologie ci fanno scoprire l’anima santa e nobile di Giustino; difende coraggiosamente ai cristiani perseguitati e senza rancore cerca la conversione dei carnefici. Secondo il padre Lagrange, tutti i cristiani dovrebbero leggere queste due apologie. Nel Dialogo, dopo aver narrato la propria conversione in tratti immemorabili, Giustino, nella persona di un rabbino evidenzia le obiezioni del giudaismo riguardo il cristianesimo. Trifone è il tipo di rabbino del secondo secolo dopo Cristo. Incantato di poter discutere con un filosofo, viene poi deluso e lo disprezza quando ascolta la sua professione di fede cristiana. Sarebbe stato meglio per Giustino, secondo Trifone, essere rimasto platonico che diventare cristiano; meglio il paganesimo al cristianesimo che adora ad un uomo. Questa era la grande accusa dell’ebraismo e Giustino cerca di dimostrare a Trifone che il Messia preannunciato dai profeti non è altro che Gesù il quale si è manifestato come il Figlio di Dio (5). Con la sua dottrina dei "semina Verbi", San Giustino è stato forse il primo dei padri a fare una teologia della storia. Contro i gnostici afferma la continuità del disegno di salvezza fra l’antico ed il nuovo testamento, ma cerca anche di vedere come i pagani formavano parte di questo disegno.

Sottolinea anche il P. Puech che "quello che attrae e trattiene l’attenzione dello storico è la sua preoccupazione, anche se in maniera confusa, per il grande problema che la scuola di Alessandria esaminerà poi con più ampiezza e metodo e risolverà anche più efficacemente; il problema delle relazioni fra filosofia e fede" (6). Questo rende il pensiero di Giustino molto attuale perché dando uno sguardo alla storia del pensiero negli ultimi secoli constatiamo "una progressiva separazione tra la fede e la regione filosofica…La ragione, privata dell'apporto della Rivelazione, ha percorso sentieri laterali che rischiano di farle perdere di vista la sua meta finale. La fede, privata della ragione, ha sottolineato il sentimento e l'esperienza, correndo il rischio di non essere più una proposta universale… Non sembri fuori luogo, pertanto, il mio richiamo forte e incisivo, perché la fede e la filosofia ricuperino l’unità profonda che le rende capaci di essere coerenti con la loro natura nel rispetto della reciproca autonomia" (7). Seguendo questo richiamo presentiamo la figura di San Giustino, chi era convinto che la verità non può contraddire la verità, e che non è possibile dunque un'opposizione fra ragione e fede. Lui comprese che grazie al mistero del Logos incarnato la filosofia e la fede non possono essere in opposizione, anzi, sono per principio armoniche.



La conversione

San Giustino racconta la sua conversione nel Dialogo con Trifone, nel quale il santo ci manifesta l’itinerario della sua anima verso Dio. Lo stile letterario non diminuisce bensì abbellisce la verità della sua testimonianza. La conversione di Giustino ci aiuta a comprendere quali erano i motivi che potevano spingere ad un pagano, di cultura greca, verso il cristianesimo nel secondo secolo dopo Cristo. In quel' epoca le speculazioni filosofiche erano piene di preoccupazioni religiose. Come dice Gilson, in quell’epoca "convertirsi al cristianesimo era, spesso, passare da una filosofia animata da uno spirito religioso ad una religione capace di visioni filosofiche". Anche se geograficamente vicino ai Samaritani, non sembra che siano stati questi ad avvicinarlo al monoteismo né ad ispirargli il desiderio di conoscere la verità. Secondo la testimonianza dello stesso Giustino, la lettura dei profeti e degli amici di Cristo (gli apostoli ed evangelisti) viene, nella sua vita, dopo la lettura dei filosofi. In ogni modo nessuna spiegazione naturale, psicologica o sociologica è sufficiente a spiegare la sua conversione. Come afferma il P Lagrange: "La migliore spiegazione, quella che risolve il problema dalla radice, è che la grazia attirava questa anima privilegiata. Senza dubbio l’uso della ragione l’aveva allontanato dalle pratiche politeistiche"(8).

Vediamo adesso il testo in cui il santo racconta il suo itinerario filosofico prima di arrivare alla conoscenza della vera filosofia. Il testo serve per conoscere lo stato in cui si trovavano le scuole filosofiche del tempo, anche se queste vengono presentate in un modo piuttosto ironico. Giustino racconta all'ebreo Trifone come lui, desideroso di conoscere la verità, era andato alla ricerca dei filosofi:

"Anch’io da principio, desiderando incontrarmi con uno di questi uomini (filosofi), mi recai da uno stoico. Passato con lui un certo tempo senza alcun profitto da parte mia sul problema di Dio (lui non ne sapeva niente, e d’altra parte diceva trattarsi di una cognizione non necessaria), lo lasciai e andai da un altro, chiamato peripatetico. Acuto, o al meno si riteneva tale. Costui per i primi giorni mi sopportò, poi pretendeva che per il seguito stabilissi un compenso, pena l’inutilità della nostra frequentazione. Per questo motivo abbandonai anche lui, ritenendolo proprio per nulla un filosofo.

Il mio animo tuttavia era ancora gonfio del desiderio di ascoltare lo straordinario ammaestramento proprio della filosofia, per cui mi recai da un pitagorico di eccelsa reputazione, uomo di grandi vedute quanto alla sapienza. Come dunque venne a conferire con lui, volendo diventare suo uditore e discepolo, mi fece: ‘Vediamo, hai coltivato la musica, l'astronomia, la geometria? O pensi forse di poter discernere alcunché di quanto concorre alla felicità prima di esserti istruito in queste discipline, che distolgono l’animo dalle cose materiali e lo preparano a trarre frutto da quelle spirituali, sì da giungere a contemplare direttamente il bello e il bene?’

Così, dopo aver tessuto le lodi di queste scienze ed averne affermato la necessità, mi rispedì, avendo io dovuto ammettere che non le conoscevo. Ero afflitto, com’è naturale, avendo mancato le mie aspettative, tanto più che ero convinto che tale avesse una certa competenza. D’alta parte, considerando il tempo che avrei dovuto passare su quelle discipline, non potei tollerare l’idea di accantonare così a lungo le mie aspirazioni" (9).

É da notare che quello che lui cercava non era una qualsiasi verità, ma la verità su Dio. Gli stoici pur avendo una morale in alcuni aspetti elevata, non conoscevano il fondamento ultimo della morale che è Dio e la loro dottrina dei "semina verbi" si diluiva in un panteismo materialista. I peripatetici dell'epoca di Giustino si dedicavano soprattutto all’insegnamento delle opere logiche di Aristotele e quello che toccò in sorte al nostro santo era, per la venalità, più vicino ai sofisti che al discepolo di Platone. Il pitagorico sembra il più serio fra tutti ma Giustino considera la conoscenza di Dio più seria e più necessariamente immediata che tutte le scienze che questi gli chiedeva di imparare. Dio, se esiste, non può essere nascosto, la sua presenza e la sua azione non possono essere così difficili da afferrarsi, essendo questa conoscenza la più importante per l’uomo. Giustino viveva quello che San Paolo aveva ricordato agli ateniesi nell’Areopago riguardo Dio: "In lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo…" (cfr. At. 17,28). Il passo seguente saranno i platonici:

"Senza via di uscita, decisi di entrare in contatto anche con i platonici, i quali pure godevano di grande fama. Eccomi dunque a frequentare assiduamente un uomo assennato, giunto da poco nella mia città, che eccelleva tra i platonici, e ogni giorno facevo dei progressi notevolissimi. Mi affascinava la conoscenza delle realtà incorporee e la contemplazione delle Idee eccitava la mia mente. Ben presto dunque ritenni di essere diventato un saggio e coltivavo la mia gioca speranza di giungere alla immediata visione di Dio (10). Perché questo è lo scopo della filosofia di Platone" (11).

Giustino si ritira in un luogo isolato pensando, scioccamente, di poter arrivare da solo alla visione di Dio. Il Mediterraneo, non molto lontano dalla città di Nablus non manca da quelle parti di posti isolati. A questo punto, appare un vecchio venerando che rappresenta in modo paradigmatico il cristianesimo in dialogo con la filosofia:

"Mi trovavo dunque in questa situazione, quando pensai di immergermi nella quiete assoluta e sottrarmi alla calca degli uomini (12), e per questo mi dirigevo verso una località non lontana dal mare. Ero ormai giunto al luogo in cui mi proponevo stare solo con me stesso, quand'ecco un vecchio carico di anni, di bell’aspetto e dall’aria mite e veneranda, poco discosto da me seguiva i miei passi. Mi volsi e lo fronteggiai fissandolo intensamente.

- Mi conosci? – fa lui.

Dissi di no.

- Perché allora, riprese, mi squadri così?

- Mi sorprende che tu sia capitato nel mio stesso posto, perché non mi sarei mai aspettato di trovare qualcuno di questi parti.

- Sono in pensiero per certi miei congiunti, mi dice. Si trovano lontano da me e per questo a mia volta vengo a vedere di loro, caso mai spuntassero da qualche parte. Tu piuttosto, fa lui a me, che cosa fai qui?

- Mi piace occupare il tempo in questo modo, risposi, perché posso liberamente dialogare con me stesso. Posti come questo favoriscono il desiderio di raziocinare.

- Ah!, sei dunque un cultore del raziocinio, e non dell’azione e della verità. E non ti provi ad essere un uomo di azione piuttosto che di sofismi?

Risposi: - Quale azione più grande e migliore si potrebbe compiere che non mostrare che la ragione tutto governa, afferrarla e salirci su per vedere dall’alto gli errori ed il comportamento degli altri, che non fanno nulla di sensato e di gradito a Dio? Senza la filosofia e la retta ragione non ci può essere saggezza. Per questo ogni uomo ha il dovere di darsi alla filosofia e ritenerla l’azione più grande e degna di onore. Tutto il resto viene in secondo o terzo ordine, ed in quanto è connesso con la filosofia è conveniente e degno di essere accettato, in quanto invece ne è disgiunto ed è esercitato di gente cui la filosofia non è compagna, è sconveniente e volgare".

Dopo questa lode del sapere filosofico, comincia adesso un dialogo sulla natura della filosofia e sulla nozione di Dio:

- "La filosofia dunque procura la felicità? – intervenne quello.

- Certamente - dissi - ed è l’unica in grado di farlo.

Riprese: - ma che cos’è la filosofia, e qual è la felicità che procura? Se non hai degli impedimenti a dirlo dillo!

- La filosofia - risposi - è la scienza dell’essere e la conoscenza del vero, e la felicità che procura è il premio di questa scienza e di questa sapienza.

- Ma tu che cos’è che chiami Dio? Chiese.

- Ciò che è sempre uguale a se stesso e che è causa di esistenza per tutte le altre realtà, questo è Dio.

Così gli risposi e mi parve rallegrato…".

Notiamo che Giustino è convinto della capacità dell'uomo di afferrare la verità e possiede una giusta, purché imperfetta, nozione di Dio. Il nostro filosofo non è né agnostico, né politeista, né ateo. Possedeva quello che San Tommaso chiamerà i "preambula fidei", quelle verità naturali che sono il fondamento sul quale la fede appoggia, e senza le quali essa non può essere che fideismo. Il vecchio, dunque, vista la buona disposizione di Giustino, cercherà di condurlo pian piano verso la verità cristiana. Secondo il metodo socratico l’anziano prima di tutto fa riconoscere al Nostro che i filosofi non possono elaborare da soli un pensiero corretto su Dio perché non l’hanno visto né udito; dopo che la nostra anima non può vedere Dio se non è aiutata da "uno spirito santo", inoltre l’incoerenza della dottrina dell’eternità e la reincarnazione delle anime, fino a che Giustino si mostra vinto. E' il momento in cui il vecchio li presenta un’altra saggezza che non viene dai filosofi ma da uomini graditi a Dio e da Lui stesso illuminati:

- "E chi mai si potrà prendere come maestro, feci io, e di dove si potrà trarre giovamento se neppure in uomini come Platone e Pitagora si trova la verità?

- Molto tempo fa, prima di tutti costoro che sono tenuti per filosofi, vissero uomini beati, giusti e graditi a Dio, che parlavano mossi dallo spirito divino e predicevano le cose future che si sono ora avverate. Li chiamano profeti e sono i soli che hanno visto la verità e l’hanno annunciata agli uomini senza remore o riguardo per nessuno e senza farsi dominare dall’ambizione, ma proclamando solo ciò che, ripieni di Spirito santo, avevano visto e udito.

I loro scritti sono giunti fino a noi e chi li legge prestandovi fede ne ricava sommo giovamento, sia riguardo alla dottrina dei principi che a quella del fine e su tutto ciò che il filosofo deve sapere. Essi, infatti, non hanno presentato il loro argomento in forma dimostrativa, in quanto rendono alla verità una testimonianza degna di fede e superiore ad ogni dimostrazione, e gli avvenimenti passati e presenti costringono a convenire su ciò che è stato detto per mezzo di loro.

Essi inoltre si sono mostrati degni di fede in forza dei prodigi che hanno compiuto, e questo perché sia glorificato Dio Padre, creatore di tutte le cose, sia hanno annunciato il Figlio suo, il Cristo da lui inviato…Prega dunque perché innanzitutto ti si aprano le porte della luce: si tratta infatti di cose che non tutti possono vedere e capire ma solo coloro cui lo concedono Dio ed il suo Cristo.

Dopo aver detto queste e altre cose, che non è qui il momento di riferire, quel vecchio se ne andò con l’esortazione a non lasciare cadere, e da allora non l’ho più rivisto. Quanto a me, un fuoco divampò all’istante nel mio animo e mi pervase l’amore per i profeti e per quelli uomini che sono amici di Cristo. Ponderando tra me e le sue parole trovai che questa era l’unica filosofia certa e proficua.

In questo modo e per queste ragioni io sono un filosofo, e vorrei che tutti assumessero la mia stessa risoluzione e più non si allontanassero dalle parole del Salvatore".

Dal momento in cui Giustino conosce Cristo non abbandona la filosofia ma si converte in un vero filosofo, uno che ha trovato la vera filosofia. Ma non dobbiamo pensare che sia stata soltanto la filosofia a preparare il cammino di Giustino verso Gesù Cristo; ci sono stati anche i martiri. L’esempio della loro vita e soprattutto l’animo con il quale affrontavano il martirio:

"Infatti io stesso, che mi ritenevo soddisfatto delle dottrine di Platone, sentendo che i cristiani erano accusati ma vedendoli impavidi dinanzi alla morte ed a tutti i tormenti ritenuti terribili, mi convincevo che era impossibile che essi vivessero nel vizio e nella concupiscenza.

Infatti quale uomo libidinoso o intemperante o che reputi un bene il cibarsi di carne umana (13) potrebbe abbracciare la morte, per essere privato di questi suoi beni, e cercherebbe invece di vivere sempre la vita di quaggiù e di sfuggire ai magistrati, anziché autodenunciarsi per essere ucciso?" (14).

Accettando il cristianesimo Giustino accetta dunque una nuova vita che include la possibilità del martirio. Da quel momento Giustino non cercherà altro che di essere trovato degno del nome di cristiano.



San Giustino e la filosofia

Abbiamo visto cosa pensava Giustino prima della sua conversione nel dialogo col misterioso anziano. Quando il filosofo si converte non intende per niente lasciare la filosofia. Al contrario pensa di aver trovato, finalmente, la vera filosofia. Per questo quando Trifone lo incontra ad Efeso, Giustino indossava il manto proprio dei filosofi ed è per questo che lo saluta: "Salve, filosofo!". Il fatto viene anche testimoniato da Eusebio: "Giustino, nel vigore della sua età, predicava la parola divina con il manto dei filosofi e combatteva difendendo la fede con i suoi scritti" (15). La posizione di Giustino riguardo alla filosofia è unica fra i padri apologisti del secondo secolo. Non soltanto riguardo al pensiero filosofico della sua epoca, ma anche riguardo a tutta la filosofia e cultura classica in genere. Senza dubbio Giustino, prima e dopo la sua conversione, aveva della filosofia un concetto elevatissimo ed è così che lo dice a Trifone:

"La filosofia in effetti è il più grande dei beni è il più prezioso agli occhi di Dio, l’unico che a Lui conduce ed a Lui ci unisce, e sono davvero uomini di Dio coloro che hanno volto l’animo alla filosofia"(16).

La difesa che fa San Giustino della filosofia è molto importante perché arriva in un momento in cui il cristianesimo soffre l’influenza dei diversi sistemi gnostici dai quali sorgono sette che a volte si dichiarano cristiane, i cui aderenti però non erano perseguitati come tali (17). Queste eresie provocheranno il rifiuto della filosofia da parte di alcuni, tra i quali un discepolo dello stesso Giustino: Taziano. Ma anche se il compito della filosofia è sublime, Giustino si rende conto che la maggior parte dei filosofi non sono riusciti a sapere che cos’è veramente la filosofia. L’uomo porta con sé la ferita della colpa originale che ha ottenebrato la sua intelligenza e indebolito la sua volontà. La storia della filosofia è una prova evidente di questo stato:

"…ai più è sfuggito che cos’è la filosofia e perché mai è stata inviata agli uomini: diversamente non vi sarebbero stati né platonici né stoici né teoretici né pitagorici, perché unico è il sapere filosofico" (18).

A Roma Giustino aprì una scuola di filosofia che non era altro che una scuola di catechesi. Grazie a questo poté insegnare pubblicamente per un certo tempo la vera filosofia in un periodo di persecuzione. Aprire una scuola pubblica sembra essere stata una genialità del nostro santo ed una ispirazione di Dio, che mediante i suoi santi ci mostra sempre nuovi sentieri di evangelizzazione. Giustino, come tutti i santi, è stato un uomo originale. Questa scuola sembra essere stata anche la causa del suo martirio giacché nella sua seconda Apologia, Giustino racconta di aver lasciato pubblicamente senza risposta Crescente, il suo accusatore (19).

Qualcuno può pensare che Giustino avrebbe concesso troppo alla filosofia e che sarebbe dunque uno dei colpevoli di quella ellenizzazione del cristianesimo malfortunatamente arrivata nei primi secoli della chiesa. L'atteggiamento di Giustino non sarebbe ‘biblico’ tenendo conto soprattutto della condanna fatta da San Paolo alla filosofia: Cristo crocifisso e follia per i pagani, la saggezza di questo mondo è pazzia. Ma la saggezza condannata da San Paolo è quella che pretende una liberazione puramente speculativa senza Cristo; questa è la massima stoltezza. Conoscere Cristo è la vera sapienza, Cristo crocifisso è sapienza di Dio e potenza di Dio. Il punto cruciale di questa accusa sarebbe la sua dottrina del "Logos spermatikós"; i semi del Verbo. Il termine Logos è certamente di origine filosofico, utilizzato da Eraclito, Filone, e nei primi secoli della Chiesa gli stoici avevano sviluppato la loro dottrina dei semina verbi (logos spermatikós).

Bisogna notare, prima di tutto col P. Lagrange, che la dottrina del Verbo di San Giustino proviene innanzitutto dalla Sacra Scrittura. Anche se prende dagli stoici il termine semina Verbi, per Giustino questo ha un senso assolutamente diverso. L’operazione fatta dai gnostici è stata quella di assorbire la persona di Gesù in una filosofia del Logos ma non è quello che ha fatto Giustino, e prima di lui lo stesso San Giovanni. L’entrata del termine Logos nel vangelo non è un errore casuale, non è l’intromissione o la vittoria della filosofia sulla fede in Gesù, tutto al contrario, è la vittoria della fede cristiana sulla filosofia. Partendo dal Gesù storico Giovanni si rivolge ai filosofi per dirgli che questi che loro nominavano "Logos" è Lui, pieno di grazia e di verità, s’è fatto carne ed ha abitato in mezzo a noi; noi abbiamo visto la sua gloria e la nostra predicazione non proviene di una speculazione teorica ma da quell’avvenimento storico:

"Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita (poiché la vita si è fatta visibile, noi l'abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi), quello che abbiamo visto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia perfetta (1Giov. 1-4).

Dire che Cristo è il Logos non era un affermazione filosofica ma religiosa, anche se prendendo un termine usato dai filosofi. E' un fatto che il cristianesimo sin dagli inizi, nei vangeli, si appropriò di termini filosofici e, così facendo, la rivelazione cristiana non soltanto legittimava ma esigeva tali appropriazioni (20). Giustino, dunque, segue fedelmente nel cammino cominciato dagli apostoli, e proclama il diritto assoluto del cristianesimo su ogni filosofia, ogni verità, ogni logos vero pronunziato da chiunque appartiene a noi cristiani, perché noi possediamo il Verbo tutto intero. Ascoltiamo al cristiano parlare ai filosofi:

"Io confesso di vantarmi e di combattere decisamente per essere trovato cristiano, non perché le dottrine di Platone siano diverse da quelle di Cristo, ma perché non sono del tutto simili, così come quelle degli altri, Stoici e poeti e scrittori.

Ciascuno, infatti, percependo in parte ciò che è congenito al Logos divino sparso nel tutto, formulò teorie corrette; essi però contraddicendosi su argomenti di maggior importanza, dimostrano di aver posseduto una scienza non sicura ed una conoscenza non inconfutabile.

Dunque ciò che di buono è stato espresso da chiunque, appartiene a noi cristiani. Infatti noi adoriamo ed amiamo, dopo Dio, il Logos che è da Dio non generato ed ineffabile, perché egli per noi si è fatto uomo affinché divenuto partecipe delle nostre infermità, le potesse anche guarire.

Tutti gli uomini, attraverso il seme innato del Logos, poterono oscuramente vedere la realtà. Ma una cosa è un seme ed una imitazione concessa per quanto è possibile, un’altra è la cosa in sé, di cui, per sua grazia, si hanno la partecipazione e l’imitazione" (21).

Da questo principio ermeneutico, cerca nei filosofi antichi questi semi del Verbo fino ad affermare che "coloro che vissero secondo il Logos sono cristiani, anche se furono giudicati atei, come, tra i greci, Socrate ed Eraclito ed altri come loro" (22). Se c’è stato un errore non è quello di aver concesso troppo alla filosofia o di aver imposto al cristianesimo la filosofia greca ma quello di aver letto i filosofi con uno spirito così preoccupato delle verità cristiane, che credeva riconoscerle dappertutto (23).

Il martirio del santo sembra negare la grandezza che Giustino conferiva alla filosofia. Infatti mori sotto il più filosofo degli imperatori: Marco Aurelio, il suo delatore fu un filosofo: il cinico Crescentius, e fu condannato senza pietà dallo stoico Rustico, amico e confidente dell’Imperatore. Sembra che la élite intellettuale dell’epoca abbia considerato il cristianesimo come una follia degradante e si sia rinchiusa ideologicamente in quella saggezza che, nel nome della ragione, è capace di commettere le più gravi atrocità senza nessun rimorso.



Giustino apologista

Il secondo secolo viene considerato da molti come l’epoca d’oro dell’Impero, l’età degli Antonini. Antonino Pio (138-161) e il suo figlio adottivo Marco Aurelio sono passati alla storia come imperatori tra i più saggi, preoccupati per affermare la pax romana fino ai confini dell’impero. Ma dall’epoca di Nerone i cristiani erano considerati come un pericolo per questa pace. La prima persecuzione fu quella di Nerone il quale, su istigazione degli ebrei sui quali stava per ricadere l’accusa, li presentò alla folla come i responsabili del terribile incendio da lui provocato e come nemici del genere umano (24). Da quel momento fino a Costantino non è stato più lecito essere cristiano: "non licet essere cristianos". E vero che ci sono stati dei periodi più tranquilli ma la spada di Damocle pendeva sempre su quelli che erano accusati di essere cristiani, e questi dovevano essere sempre pronti per difendere la loro fede perfino col sangue. Domiziano, dopo Nerone, non concesse ai cristiani nemmeno la tolleranza concessa agli ebrei. E Traiano, considerato uno dei più grandi imperatori, inaugura una nuova persecuzione considerando ai cristiani fra le società non permesse. Plinio il Giovane, nell’epoca in cui probabilmente Giustino cominciò la sua ricerca interiore, si lamentava della diffusione di quella "superstizione sfrenata e perversa", difficile di controllare "soprattutto per il numero delle persone implicate: molti di ogni età e condizione e persino di entrambi sessi, che sono sottoposti ad accusa. Il contagio di tale pestilenza non si è limitato alla città ma si è diffuso anche nei villaggi e nelle campagne" (25). Al tempo del martirio del nostro santo il celebre precettore di Marco Aurelio, Frontone, compose la sua famosa orazione contro i cristiani, Luciano de Samosata si beffa dei cristiani per il loro atteggiamento davanti alla morte nella sua satira La morte del Peregrino, e alcuni anni dopo Celso scrisse la critica forse più acuta contro i cristiani nel suo Discorso veritiero (26).

Giustino non può tollerare la ingiustizia contro gli innocenti da parte di un potere benevolo con tutte le religioni, anche quelle più assurde e contraddittorie. Il suo interesse non è soltanto di difendere i cristiani ma anche di convertire i carnefici, appellandosi alla loro ragione e alla loro coscienza, affinché agiscano giustamente:

"Nostro dovere, dunque, è di offrire a tutti la prova della nostra vita e delle nostre dottrine, affinché per colpa di coloro che vogliono ignorare quanto ci riguarda, proprio noi non paghiamo il fio di colpe che essi commettono per cecità; quanto a voi, è vostro dovere –secondo quanto richiede la ragione- dimostrandovi buoni giudici, ascoltandoci.

Ingiustificabile sarà in seguito la vostra azione dinanzi a Dio se, dopo aver conosciuto i fatti, non agirete secondo giustizia" (27).

Nella difesa del cristianesimo utilizza molto poco l’argomento dei miracoli, e non perché lui non ci credesse ma perché i romani credevano troppo nella magia e potevano confonderli con cose del genere. Si racconta, infatti, che Tiberio, quando sentì che Gesù era salito in cielo chiese informazioni perché anche lui voleva volare su una nuvola. L’argomento più ricorrente è quello delle profezie. Qui non abbiamo il tempo né lo spazio, ma nella prima Apologia e nel dialogo, Giustino cerca di provare con i testi come le profezie nell’Antico testamento si sono compiute in Gesù Cristo. La storia di Cristo non è un mito o una favola, ci sono stati dei testimoni oculari che hanno lasciato "memorie" scritte e orali tramite le quali noi siamo diventati conoscitori dei fatti. La nascita, la predicazione, i miracoli, la morte, la passione e la risurrezione di Gesù, scandalo per gli ebrei e pazzia per i pagani, erano state predette dai profeti.

Il secondo argomento preferito da San Giustino è l’elevatezza di vita dei cristiani, è un argomento ricorrente negli apologisti del secondo secolo ed infatti, quei pochi cristiani con l’esempio della loro vita e del loro martiri convertirono un impero:

" Noi che prima godevamo della dissolutezza, ora amiamo solo la continenza; noi che usavamo arte magiche, ora ci siamo consacrati al Dio buono ed ingenerato; noi che ambivamo, più degli altri, a conseguire ricchezze e beni, ora mettiamo in comune ciò che abbiamo e lo spartiamo con i bisognosi.

Noi che ci odiavamo l’un l’altro e ci uccidevamo e non spartivamo il focolare con coloro che non erano della nostra stirpe o avevano costumi diversi, ora, dopo la manifestazione di Cristo, viviamo in comunità e preghiamo per in nemici e ci sforziamo di persuadere quanti ingiustamente ci odiano affinché vivendo secondo i buoni comandamenti di Cristo, abbiano la belle speranza di ottenere, insieme con noi, la stessa ricompensa da parte di Dio, signore di tutte le cose" (28).

Pagina bellissima di Giustino, simile a quella dell’epistola a Diogneto (29), scritta all’incirca nell’età del Dialogo contro Trifone. I cristiani sono l’anima del mondo e questo si manifesta per la santità della loro vita. In modo particolare, la virtù della purezza viene considerata da Giustino come uno degli argomenti più importanti. Così scrive all’Imperatore dopo di avergli citato alcuni detti di Cristo riguardanti la castità:

"E molti uomini e donne di sessanta o settanta anni, che fin da fanciulli sono ammaestrati negli insegnamenti di Cristo, perseverano incorrotti. E mi vanto di potervi mostrare uomini siffatti sparsi in ogni classe.

C’è forse bisogno di parlare dell’innumerevole moltitudine di coloro che si sono convertiti da una vita dissoluta e hanno appreso questa verità? Infatti Cristo non ha chiamato alla conversione ai giusti e i sobri, ma gli empi e i dissoluti e gli ingiusti" (30).

La testimonianza di Giustino è importantissima per quanto riguarda la vita liturgica dei primi cristiani. Lui parla con semplicità e chiaramente di come sono battezzati, di come si riuniscono il giorno chiamato del sole per celebrare l’eucaristia nella quale leggono e meditano la Parola di Dio, e si nutrono della "carne e del sangue di quel Gesù incarnato", di come condividono i loro beni con i più bisognosi (31).

Abbiamo visto come la testimonianza del martirio aveva spinto Giustino verso il cristianesimo; dopo la sua conversione questo si trasforma in un argomento apologetico, la fortezza di animo di tanti cristiani davanti al martirio è una prova della verità della loro fede. San Giustino dice in altre parole quello che dirà dopo Tertulliano: il sangue dei martiri è seme di cristiani. Così scrive a Trifone:

"Che poi non ci sia chi ci metta paura e ci possa asservire, noi che su tutta la terra abbiamo creduto in Gesù, è cosa evidente. E' noto infatti che, decapitati, crocifissi, gettati in pasto alle fiere, gettati in catene o nel fuoco e sottoposti a quanti altri tormenti, non abbandoniamo la nostra professione di fede, anzi, quanto più subiamo di questi supplizi, tanto più cresce il numero di fedeli e dei devoti nel nome di Gesù. Come quando uno pota i tralci della vite che hanno dato frutto e quella ricresce facendo germogliare nuovi rami rigogliosi e fruttiferi, cosi avviene anche a noi, perché la vigna piantata da Cristo, Dio e salvatore, è il suo popolo" (32).



Giustino martire

Giustino, come tanti di quei primi cristiani, possiede un’anima di martire. Per lui non solo i cristiani ma ogni uomo deve essere pronto a dare la propria vita per la verità.

"La ragione suggerisce che quelli che sono davvero pii e filosofi onorino e amino solo il vero, evitando di seguire le opinioni degli antichi qualora siano false. Infatti, la retta ragione suggerisce non solo di non seguire chi agisce o pensa in modo ingiusto, ma bisogna che in ogni modo e al di sopra della propria vita, colui che ama la verità, anche se è minacciato di morte, scelga sia di dire sia di fare il giusto" (33).

Il nostro santo seppe testimoniare col sangue queste sue parole, "confitendo veritatem, moriendo pro veritate", come dice Sant’Agostino dei martiri. Senza paura, parla Giustino all’imperatore e alle autorità romane sapendo che queste potranno ucciderlo ma non nuocerlo:

"Voi dunque godete in ogni luogo la fama di essere pii e filosofi e custodi della giustizia e amanti della sapienza; se poi davvero anche lo siete sarà dimostrato.

Eccoci, infatti, dinanzi a voi non per adularvi attraverso questi scritti né per parlarvi in modo accattivante, ma per chiedervi di pronunciare il giudizio secondo il criterio di un attento e preciso esame, senza attenervi ai pregiudizi né al desiderio di piacere a gente superstiziosa: ritorcereste la condanna contro di voi stessi, con un comportamento irragionevole e seguendo una cattiva fama ormai inveterata.

Noi infatti siamo persuasi che non possiamo subire alcun male da alcuno, a meno che si provi che siamo operatori di malvagità o che si riconosca che siamo malvagi: voi potete sì ucciderci, ma non nuocerci" (34).

Nella seconda apologia Giustino ci fa sapere che lui prevedeva la sua morte ed era preparato:

"Ed anch’io mi aspetto che si ordiscano insidie da parte di qualcuno dei magistrati, e di essere confitto ad un palo, quanto meno da Crescente, che si compiace di strepito e di pompa" (35).

Secondo il P. Lagrange si potrebbe pensare che ci sia stato proprio una congiura degli spiriti colti contro i cristiani, in modo particolare contro Giustino. Filosofi di scuole diverse si unirono contro il nostro santo sotto lo stoico sguardo dell'Imperatore. Si voleva distruggere un maestro e la sua scuola (36).

Concludiamo il nostro lavoro col bellissimo testo del martirio del nostro santo e di suoi compagni. Speriamo che San Giustino, filosofo e martire, sia un esempio per tutti noi cristiani, affinché siamo trovati degni di questo nome che portiamo.



Atti del Martirio di San Giustino e compagni (37)

I – 1) Al tempo degli uomini iniqui difensori dell’idolatria, furono emanati nella città e nella regione empi editti contro i pii cristiani, con lo scopo di costringerli a sacrificare agli idoli vani.

2) Arrestati dunque, i predetti martiri furono condotti dinanzi a Rustico, prefetto di Roma.

II – 1) Appena furono condotti al tribunale, il prefetto Rustico intimò a Giustino: "Prima di tutto, credi agli dei e obbedisce agli imperatori!".

2) Rispose Giustino: "Irreprensibile e immune da condanna è per me obbedire ai comandi del nostro salvatore Gesù Cristo".

3) Chiese Rustico: "quali concezioni filosofiche segui?". Rispose Giustino: "Mi sono dedicato allo studio di tutti i sistemi filosofici, ma ho aderito con la mia anima soltanto alle veritiere dottrine dei cristiani, anche se non piacciono a coloro che vivono nell’errore".

4) Chiese ancora Rustico: "A te dunque piacciono quelle dottrine, sciagurato?". Rispose Giustino: "Sì, poiché le seguo secondo il vero dogma".

5) "Qual è questo dogma?", domandò Rustico. Giustino rispose: "Quello che ci insegna a credere nel Dio dei cristiani, che consideriamo Dio unico, creatore ed ordinatore di tutto l’universo, visibile e invisibile, e nel Figlio di Dio, nostro Signore Gesù Cristo, del quale anche i profeti avevano predetto che sarebbe venuto ad annunciare la salvezza al genere umano e a insegnare la vera dottrina.

6) "E io, misero mortale, penso di dire ben poco rispetto alla sua divinità infinita, perché riconosco che è necessaria la virtù profetica per parlarne e ripeto che i profeti hanno parlato di Colui che ho chiamato Figlio di Dio. Sappi infatti che i profeti predissero la sua venuta tra gli uomini".

III – 1) Chiese ancora il prefetto Rustico: "Dove vi riunite?". Rispose Giustino: "Dove ciascuno può e preferisce; tu credi che tutti noi ci riuniamo in uno stesso luogo, ma non è così, perché il Dio dei cristiani, che è invisibile, non si può circoscrivere in alcun luogo, ma riempi il cielo e la terra ed e venerato e glorificato ovunque dai suoi fedeli".

2) Riprese Rustico: "Insomma dove vi riunite , ovverosia, dove raduni i tuoi discepoli?".

3) Giustino disse: "Abito preso un certo Martino, sopra il bagno di Timiotino, dall’inizio di questo secondo periodo della mia permanenza in Roma.

Non conosco altri luoghi di riunioni, al infuori di quello, dove, se qualcuno voleva venire a trovarmi, lo facevo partecipe delle divine parole della verità".

4) Chiese infine Rustico: "Insomma, sei dunque cristiano?". Rispose Giustino: "Sì, sono cristiano".

IV – 1) Il prefetto si volse quindi a Caritone: "E tu, Caritone, sei pure cristiano?". Rispose Caritone: "Si, per volere di Dio".

2) Rivolto a Carito il prefetto chiese: "Che dici tu, Carito?". Carito rispose: "Sono cristiana, per dono di Dio".

3) Rustico chiese quindi a Evelpisto: "Tu pure sei uno di loro, Evelpisto?". Evelpisto, schiavo dell’imperatore, rispose: "Anch’io sono cristiano, reso libero da Cristo e, per sua grazia, partecipo alla medesima speranza di questi".

4) Rivolto a Jerace, il prefetto domandò: "Anche tu sei cristiano?". Jerace rispose: "Si, sono cristiano poiché venero e adoro lo stesso Dio".

5) Il prefetto proseguì l’interrogatorio chiedendo: "E stato Giustino a farvi diventare cristiani?". Jerace rispose: "Sono cristiano da lungo tempo e cristiano rimarrò".

6) Peone, alzatosi in piedi, dichiarò: "Anch’io sono cristiano". Rustico gli chiese: "Chi è stato il tuo maestro?". Peone rispose: "Dai genitori abbiamo ricevuto questa nobile confessione".

7) Evelpisto aggiunse. "Ascoltavo volentieri i discorsi di Giustino, ma ho appreso anch’io dai miei genitori le parole della verità di Cristo". Chiese il prefetto: "Dove vivono i tuoi genitori?". Evelpisto rispose: "In Capadocia".

8) Rivolto a Jerace, Rustico chiese: "Dove vivono i tuoi genitori?". Egli rispose: "Il nostro vero padre è Cristo e la madre la fede in lui; quanto a i miei genitori terreni, sono morti e io sono giunto qui, cacciato dalla città di Iconio, nella Frigia".

9) Il prefetto chiese quindi a Liberiano: "E Tu, che dici? Sei cristiano? Neppure te veneri i nostri dei?". Liberiano rispose: "Anch’io sono cristiano: adoro e venero infatti l’unico vero Dio".

V – 1) Rivoltosi nuovamente a Giustino, il prefetto disse: "Ascolta, tu che passi per un uomo saggio e credi di conoscere la verità: se ti farò frustrare e decapitare, sei ancora convinto che salirai al cielo?".

2) Giustino rispose: "Spero di salire alla casa del Padre, se soffrirò tutti questi patimenti; so pure che la grazia divina attende tutti coloro che vivono rettamente, fino alla conflagrazione di tutto l’universo".

3) Rispose Rustico: "Questo dunque supponi, che salirai al cielo, destinato a conseguirvi eccellenti premi". Giustino ribatté: "Non lo suppongo, ma lo so con certezza e ne sono convinto".

4) Disse il prefetto: "Veniamo infine alla questione importante e urgente da trattare: venite tutti insieme a sacrificare concordemente agli dei". Giustino rispose: nessuno, che abbia senno e rettitudine, può passare dalla pietà all'empietà".

5) Rustico intimò: "Se non ubbidite, sarete inesorabilmente puniti".

6) Rispose ancora Giustino: desideriamo vivamente soffrire per il nostro Signore Gesù Cristo, perché dal martirio scaturirà a noi la speranza di salvezza davanti al tremendo tribunale universale del Nostro Signore e Salvatore".

7) Similmente dissero gli altri testimoni di Cristo: "Fa' quel che desideri; noi infatti siamo cristiani e non sacrifichiamo agli idoli".

8) Il prefetto Rustico pronunciò quindi la sentenza: "Coloro che si sono rifiutati di sacrificare agli dei e di sottomettersi all’editto dell’imperatore, siano flagellati e condotti al supplizio della pena capitale, secondo le vigenti leggi".

VI – 1) I santi testimoni, glorificando il Signore, salirono al luogo consueto, ove furono decapitati e consumarono così il martirio nella confessione del nostro Salvatore.

2) Alcuni dei fedeli portarono via di nascosto le loro salme e le deposero in un luogo adatto, con l’aiuto del nostro Signore Gesù Cristo, al quale la gloria nei secoli dei secoli. Amen.





Note:

1 Advers. Valent. 5.

2 Per questo lavoro ci siamo serviti molto dell’opera del P Lagrange San Justin, Philosophe, Martyr, Paris, Gabalda, 1914. Vedi anche San Giustino, Le due apologie, traduzione e note a cura di Guido Gandolfo; traduzione di Adriana Regaldo Raccone; Edizioni paoline, Roma, 1983. Idem Dialogo con Trifone, traduzione e note a cura di Giuseppe Visonà; edizioni Paoline, Milano 1988. Le citazioni le prendiamo di queste traduzioni.

3 A. Puech, Les Apologistes grecs du II siècle de notre ère, Parigi 1912, pp 52-53.

4 I Apol. 1.

5 "I detrattori recenti di Giustino avrebbero dovuto giustamente rendersi conto di un merito suo poco comune: è perfettamente al corrente dell'esegesi ebrea, quando, nei nostri giorni, i critici cristiani penetrano a malapena in questo labirinto. E un ebreo, M Goldfahn, chi a confermato che nella maggioranza dei casi si può constatare che gli allegati di Giustino sono confermati dai diversi scritti rabbinici. La sua informazione non è mai sbagliata. Se in qualche caso è impossibile il confronto, quello più giusto è di riportassi a lui" M.-J. Lagrange, oc. p.29.

6 oc., p.53.

7 Giovanni Paolo II, Fides et Ratio 48.

8 Oc., p.5.

9 Dialogo… 2, 3-5.

10 Queste parole di Giustino fanno ricordare quelle di Santa Teresa di Gesù. Era solo una bambina quando convinse suo fratello di abbandonare la loro casa, e partire per la terra degli infedeli con la speranza di morire martire e così poter vedere rapidamente Dio. Una volta ritrovata rispose ai suoi genitori: "Sono partita perché voglio vedere Dio, e per vederlo bisogna morire" Vita 1.

11 Ibidem 2,6.

12 Cfr. Omero, Iliade 6, 202.

13 Era una delle accuse che correvano contro i cristiani.

14 II Apol. XII, 1-2.

15 Storia Ecclesiastica IV, 11,8.

16 Dialogo 2,1.

17 San Giustino scrisse un trattato Contro di tutte le eresie, e un altro Contro Marcione purtroppo ambedue perduti.

18 Ibidem.

19 Cfr. II Apol. III.

20 Cfr. Etienne Gilson, La philosophie au Moyen Age, Paris, 1986.

21 II Apol. 2-5.

22 I Apol. XLVI, 3,

23 Cfr. P. Lagrange, oc., p 155.

24 Il biografo di Nerone, Svetonio, afferma nella sua vita che "vennero condannati al supplizio i cristiani, genere di individui dediti a una nuova e malefica superstizione (superstitio nuova e malefica)" (In Neron. 16). Anche lo storico Tacito si fa portavoce delle accuse contro i cristiani e afferma che questi erano "invisi per le loro nefande azioni" e "ritenuti accesi d’odio contro il genere umano" (Annali XV, 44)

25 Plinio, Lettere 10, 96.

26 Origene confuterà questa dottrina anni dopo nel suo Contro Celso.

27 I Apol. III, 4-5.

28 I Apol. XIV, 2-3. Vedi anche Dialogo CX, 3.

29 "I cristiani abitano in città greche o barbare, a seconda della sorte toccata a ciascuno. Si conformano agli usi locali per i vestiti, il nutrimento e il modo di vivere, pur manifestando un tipo di condotta meraviglioso e, a detta di tutti, paradossale. Abitano ognuno la loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutto, ma sopportano tutto come stranieri. Ogni terra straniera è per loro patria e ogni patria terra straniera. Si sposano come tutti gli altri e mettono al modo i figli ma non espongono i loro nati. Allestiscono in comune la tavola ma non il letto. Sono nella carne ma non vivono secondo carne. Passano la vita sulla terra, ma sono cittadini del cielo…Quello che è l’anima nel corpo, questo sono i cristiani nel mondo." A Diogneto cc. V-VI.

30 I Apol. XV, 5-6.

31 Cfr. I Apol. LXV, LXVI.

32 Dialogo CX, 4.

33 Ibidem. II, 1.

34 I Apol. II, 2-4.

35 II Apol. III,1.

36 Cfr. P. Lagrange, oc., p 197: "N’est-ce pas à se demander s’il n’y eut pas un complot de tous ce gens d’esprit contre le christianisme, peut-être même spécialement contre Justin, sous le regard indifférent de l’empereur philosophe? Fronton, littérateur, haranguait au Sénat; le cynique Crescens aboyait en public et dénonçait; Junius Rusticus, assis au prétoire, jugeait et condamnait. C’est bien à un docteur qu’on voulait, une école qu’il fallait faire disparaître, car Justin ne fut pas arrêté seul".

37 Atti dei martiri, Edizioni Paoline, Milano, 1985.

© Incontro, Rivista della famiglia religiosa del Verbo Incarnato.



http://www.paginecattoliche.it/modules.php?name=News&file=article&sid=526

San Giustino Martire


San Giustino Martire



La sua famiglia è di probabile origine latina (il padre si chiama Prisco) e vive a Flavia Neapolis, città fondata in Samaria dai Romani dopo avere schiacciato l’insurrezione nazionale ebraica e aver distrutto il Tempio di Gerusalemme. Nato nel paganesimo, Giustino studia a fondo i filosofi greci, e soprattutto Platone. Poi viene attratto dai Profeti di Israele, e per questa via arriva a farsi cristiano, ricevendo il battesimo verso l’anno 130, a Efeso.
Ma questo non significa una rottura con il suo passato di studioso dell’ellenismo. Anzi: egli sente di avere raggiunto un traguardo, trovando in Cristo la verità che i pensatori greci gli hanno insegnato a ricercare.
Negli anni 131-132 lo troviamo a Roma, annunciatore del Vangelo agli studiosi pagani; un missionario-filosofo, che parla e scrive. Nella prima delle sue due Apologie, egli onora la sapienza antica, collocandola nel piano divino di salvezza che si realizza in Cristo. È l’uomo, insomma, dei primi passi nel dialogo con la cultura greco-romana.
Al tempo stesso, Giustino si batte contro i pregiudizi che l’ignoranza alimenta contro i cristiani, esalta il vigore della loro fede anche nella persecuzione, la loro mitezza e l’amore per il prossimo. Vuole sradicare quella taccia di “nemici dello Stato”, che giustifica avversioni e paure. Il successivo Dialogo con Trifone ha invece la forma letteraria di una sua disputa a Efeso con un rabbino, nel quale Giustino illustra come Gesù ha dato adempimento in vita e in morte alla Legge e agli annunci dei Profeti.
Predicatore e studioso itinerante, Giustino soggiorna in varie città dell’Impero; ma è ancora a Roma che si conclude la sua vita. Qui alcuni cristiani sono stati messi a morte come “atei” (cioè sovversivi, nemici dello Stato e dei suoi culti). Allora lui scrive una seconda Apologia, indirizzata al Senato romano, e si scaglia contro un accanito denunciatore, il filosofo Crescente: sappiano i senatori che costui è un calunniatore, già ampiamente svergognato come tale da lui, Giustino, in pubblici contraddittori. Ma Crescente sta con il potere, e Giustino finisce in carcere, anche lui come “ateo”, per essere decapitato con altri sei compagni di fede, al tempo dell’imperatore Marco Aurelio. Lo attestano gli Acta Sancti Iustini et sociorum, il cui valore storico è riconosciuto unanimemente. Non ci è noto il luogo della sua sepoltura.
Anche la maggior parte dei suoi scritti è andata perduta. Eppure la sua voce ha continuato a parlare. Nel Concilio Vaticano I i vescovi vollero che egli fosse ricordato ogni anno dalla Chiesa universale. E il Concilio Vaticano II ha richiamato il suo insegnamento in due dei suoi testi fondamentali: la costituzione dogmatica sulla Chiesa, Lumen gentium, e la costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, Gaudium et spes.


Autore: Domenico Agasso

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